Da molto tempo serpeggia in Europa un clima definito di "antipolitica" a cominciare dalla sfiducia nei partiti che alimenta il fenomeno del populismo. Una breve riflessione della Presidente Nazionale sul ruolo dei partiti e del Parlamento
«É stolto pensare ad una tecnica che sostituisca la politica, quasi potesse esserci una tecnica che proceda senza mete da raggiungere, e quasi che le mete non siano in funzione di un ideale di bene, di un assetto considerato come il migliore. Ma è invece sacrosanta verità che la politica, per essere fruttifera, deve avere una tecnica ai suoi servizi, perché non si costruisce guardando soltanto alla meta ultima e ignorando quale sia la strada migliore per raggiungerla» (A. C. Jemolo, Che cos’è la Costituzione, in «Guide alla Costituente», Roma 1946).
Non è facile parlare di politica in questi giorni inquieti. Anzi, direi che, più che difficile, è azzardato. Misuriamo infatti la difficoltà con la quale la politica (i politici) prendono decisioni, la lentezza o l’accelerazione, l’anticipazione nei tempi della comunicazione e i ritardi rispetto agli eventi, un linguaggio stonato o troppo ardito, incontri inconcludenti tra maggioranza e opposizione, parole tante o reticenti, un dire tacendo e un tacere dicendo.
Eppure dobbiamo parlare di politica perché la politica è importante per le nostre vite anche per comprendere le sfide epocali del nostro tempo.
Il nostro Paese si è sempre contraddistinto per un “pensiero innovativo” anche nel campo della politica giocata sul piano concreto: ha inventato formule, ha realizzato schemi di gioco (parlamentare) inusitati, ha sperimentato tattiche elevate a livello di strategie: tutto e il contrario di tutto rivelando una immaginazione fervida ed una fantasia spregiudicata che hanno dequalificato la formula machiavellica della politica come scienza.
Ricordate la definizione “convergenze parallele” coniata da Aldo Moro divenuta poi esemplificazione di una modalità politica chiamata “moroteismo”? Oppure: “a pensare male si fa peccato, ma a volte si azzecca” sintesi di un andreottismo spregiudicato? Oppure “ottimismo della volontà” di gramsciana memoria, formula adatta a palati più raffinati?
A detta di molti, però, siamo entrati nel cono d’ombra costituita dal “disincanto” che si traduce o nell’assuefazione o nella richiesta di cambiamento pur che sia. Entrambi gli atteggiamenti sono ricompresi onnicomprensiva, quanto generica, definizione di “antipolitica” significata dalla “disaffezione” verso i partiti tradizionali, dall’astensionismo a due cifre, dalla delegittimazione dell’élite dirigenti. Così si allarga la distanza che separa la gente, il popolo dalla partecipazione: cioè dalla funzione svolta dai partiti.
Uno studioso dell’altro secolo, Robert Michels ha coniato l’espressione «legge ferrea (in talune varianti: “bronzea”) dell’oligarchia» contenuta nel suo celebre libro La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (1912). Secondo lo studioso il problema sociologico e politico della democrazia, fondata sul ruolo dei partiti sta nel fatto che essa tende a tramutarsi inesorabilmente in oligarchia. I partiti tradiscono i principi originari e la missione rivoluzionaria trasformandosi – una vera e propria transustanziazione – in una macchina volta alla conservazione dei capi e dei gruppi dirigenti. In questo modo Michels metteva in risalto, lo scarto tra essere e dovere essere delle forme democratiche, tra ciò che la democrazia è in realtà e ciò che promette, a partire dall’etimologia, quale modello ideale.
Alcuni studiosi nostrani sottolineano piuttosto come “l’antipolitica” sia una costante della nostra società da quando, già nella seconda metà dell’Ottocento, sebbene non con le caratteristiche attuali, si affacciarono i partiti sotto forma di “schieramenti” (destra e sinistra storica). La causa sarebbe rintracciabile nel ritardo col quale essa è arrivata alla costruzione dello Stato col quale spesso il cittadino si è confrontato/scontrato come fosse un nemico. Se così fosse, insieme alla passione per la democrazia verrebbero meno i “valori” che la contraddistinguono generando, appunto, l’antipolitica. E cioè: partecipazione, consenso, adesione, coerenza, impegno, scelta dello spazio e dello strumento finalizzati ad esprimere l’esperienza democratica. In sostanza parliamo dei partiti.
Senza voler tracciare una storia dei partiti, teniamo conto della esperienza democratica e dei due pilastri principali che giustificano la esperienza politica condotta loro tramite: la Costituzione italiana e la Dottrina sociale della Chiesa, entrambe “fonti”, tra le più importanti, per leggerne il percorso, scorgerne le difficoltà di affermazione e maturazione anche rispetto alla “dottrina” giuridico- costituzionale e sociale della Chiesa.
Nella Costituzione troviamo un solo riferimento chiaramente espresso riguardante i partiti contenuto nell’art. 49 che recita: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
In esso tre i punti importanti: diritto dei cittadini ad associarsi; i partiti sono lo strumento che rendono possibile l’attuazione di tale diritto; essi permettono e garantiscono che la politica nazionale si realizzi con metodo democratico. Nulla si dice riguardo alla vita interna dei partiti, anche se l’esperienza della dittatura, così recente, indusse l’Assemblea Costituente ad affrontare la questione, ma per evitare indebite ingerenze, prevalse la preoccupazione ad accantonare l’argomento.
Sul tema dei partiti è più esplicito il n. 413 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa che ricorda come grazie ai partiti, le cui caratteristiche sono la democrazia interna e la capacità di operare sintesi politica e progettualità, si realizza la «partecipazione diffusa e l’accesso di tutti a pubbliche responsabilità». Ma, se la pluralità dei partiti garantisce la partecipazione dei cittadini tramite la scelta elettorale, il Compendio non sottace che soltanto grazie al libero, ampio dibattito che si sviluppa nei Congressi dei partiti gli enunciati superano il livello teorico dell’enunciato per divenire prassi operativa.
Una sì alta e nobile funzione può condurre alla realizzazione del bene comune soltanto, spiega il Compendio (n. 413), se i partiti sono radicati nella società civile: l’affievolirsi di tale legame li rende afasici cioè disconnessi dalla realtà.
Certamente l’attuale non è stagione di “grande e nobile politica” e la fama che accompagna i partiti ne certifica lo scacco, mentre nel contempo ne conferma la necessità per la vita democratica pena la deriva plebiscitaria o populista significata anche dal dalla semplificazione delle procedure deliberative che in democrazia sono, se non tutto, gran parte del tutto.
La necessità si è fatta virtù: e la necessità di governare l’eccezionalità dovuta al Covid 19, richiede una linea di comando breve che esautora il Parlamento dalla sua specifica funzione. Sono molti i paesi in Europa e nel mondo nei quali il populismo ha trovato, dopo aver molto serpeggiato nella profondità dei corpi sociali, la “via del Covid 19 al corpo della democrazia”. Come il caso della Polonia, che è il primo Paese, ma non l’unico. Ci sono stati altri momenti nella nostra storia, nei quali anche se per necessità e per brevi periodi, la regolarità della vita parlamentare è stata sospesa. Purché rimanga bene impressa nella nostra coscienza di cittadini di uno stato democratico che “é il Parlamento che deve restare in ogni circostanza, la suprema e determinante assise del Paese, ed è il Parlamento che deve pretendere che nessuna decisione venga presa al di fuori o al di sopra di esso”. Così il Presidente del Senato Merzagora nel 1960 che così concludeva: “una democrazia che avvilisce il Parlamento avvilisce se stessa e le masse elettorali, perché nessuno può contestare che soltanto il Parlamento sia l’espressione genuina e totale della volontà di tutti gli elettori”.