Resistere

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Una riflessione della Presidente Nazionale sul difficile presente - Roma, 3 aprile 2020

Papa Francesco conversando con un giornalista del quotidiano La Stampa il 20 marzo u.s. offre la Sua lettura del difficile presente. Cinque sono i quadri di rappresentazione che contengono altrettante proposte.
Nel primo quadro il verbo “ricostruire” è suscitatore dei ragionamenti condotti. Dice il Santo Padre: nessuno può esistere e resistere, quindi sperare di “ricostruire”, se non ritorna alle “radici” dell’essere e recupera la “memoria” che è essa stessa azione: azione dell’annunciare e azione del celebrare. Questo il senso profondo del radicale ebraico che la descrive, il verbo zacar, che vuol dire sia ricordare che agire, perché la memoria si compie nella ripetizione del fatto. Nella memoria profonda e continuamente rinnovata del popolo ebraico c’è, infatti, la consapevolezza delle proprie radici, dell’identità, la ragione costitutiva stessa del suo stesso esistere: le origini patriarcali del popolo, il costituirsi come nazione in mezzo alle genti, il giogo della schiavitù e la liberazione ottenuta per mano del Signore. Il tutto viene ripetuto e ricordato allo scopo di lodare le opere del Signore e la grandezza di Dio. “Radici” e “memoria” saranno, dice il Papa, di supporto all’opera del “ricostruire” dopo questa fase di “stallo forzato” del Paese.
Per questo l’autentica memoria individuale e collettiva, quella che fonda l’identità e la continuità, ci propone due chiavi valide per interpretare il presente: la fratellanza e la speranza. E se la fratellanza si esprime come valore umano orizzontale che implica l’amore, fin dal fin dal principio presuppone che essa debba superare la parentela carnale, coincidendo con “prossimo”, quindi con l’opera salvifica di Dio, la speranza è attesa paziente, ardente, carica di tensione capace di superare il tratto che separa dal tempo il futuro sperato.

Il secondo “quadro” dell’intervista di papa Francesco riguarda la S. Pasqua. Il papa ci ricorda che essa per essere celebrata richiede tre atteggiamenti: quello della penitenza, della compassione e, di nuovo, quello della speranza. La prima come indica il Catechismo della Chiesa Cattolica «è un radicale riordinamento di tutta la vita, un ritorno, una conversione a Dio con tutto il cuore, una rottura con il peccato, un’avversione per il male, insieme con la riprovazione nei confronti delle cattive azioni che abbiamo commesse. Nello stesso tempo, essa comporta il desiderio e la risoluzione di cambiare vita con la speranza della misericordia di Dio e la fiducia nell’aiuto della sua grazia» (Catechismo, 1431). La compassione, come in una omelia del Santo Padre, è «la lente del cuore che fa capire le dimensioni della realtà; è anche il linguaggio di Dio, mentre tante volte il linguaggio umano è l’indifferenza» per questo essa implicare uno sforzo di autentica resistenza. E qui, se la compassione è il linguaggio di Dio, tante volte il linguaggio umano è l’indifferenza.
Il terzo quadro (“come ci si sostiene”) riguarda la “fortezza”, aiuto dato da Dio all’umanità provata. Nei momenti difficili e nelle situazioni estreme, il dono della fortezza si manifesta in modo straordinario ed esemplare come nel caso di esperienze particolarmente dure e dolorose che sconvolgono la vita personale e collettiva. Questo dono costituisce, o almeno dovrebbe, la nota di fondo del nostro essere cristiani nell’ordinarietà della vita quotidiana. La fortezza, infatti, assicura fermezza nelle difficoltà e costanza nella ricerca del bene. Essa è la virtù di quanti confidano in Dio e non temono la tribolazione, la persecuzione, la fame, il pericolo o la spada; di coloro che oppongono alla la pigrizia l’entusiasmo, al male il bene, all’odio l’amore.
Il quarto quadro ci immette sulla strada del processo di “fraternizzazione” che lo Spirito è capace di suscitare nella storia. Esso è evocato dalle parole di Dio richiamate dal papa «Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga». (Atti 10, 34-44). Grazie all’azione di fraternizzazione svolta dallo Spirito, la Chiesa di ogni tempo ed in ogni tempo, inaugura il “tempo dello Spirito”. Non più giudizi né barriere tra “vicini e lontani”, perché quanto avvenne nella prima Chiesa avviene sempre. «Il popolo di Dio, mosso dalla fede, […] crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio» (Gaudium et Spes, 11). Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco della fede riposta in Dio quando, dopo aver dichiarato di amare Dio, si chiede: «Quid autem amo, cum te amo?» «Ma che cosa amo quando amo te?» (Confessioni X, 6,8). La risposta è: l’amore per la vita donata, per i fratelli che incontriamo lungo il sentiero, la Chiesa che ci aiuta a credere.
Ultimo quadro: come muoverci in questo “oscuro” frangente storico della sofferenza? Il Santo Padre, come un bravo medico, indica la sua ricetta: occorre “sinergia”, “collaborazione reciproca”, “senso di responsabilità” e “spirito di sacrificio”.
Sinergia: è l’azione umana che trova valore di salvezza con una concrezione e universalità̀ sorprendenti, mentre si dischiude all’orizzonte salvifico che Cristo ha introdotto nel mondo: per ciascuno e per tutti. Infatti, il miglioramento morale cui forzatamente inducono le prove, porta alla richiesta ed attuazione di “buone prassi” riguardo alla “qualità dei tempi”.
Collaborazione. Per una linea di pensiero, che potremmo definire “pessimista”, l’uomo è una “disperata delusione”, gettato nel nulla, la sua esistenza è un non senso, drammaticamente sommersa dal male cosmico talmente grande da non poter essere superato. Per questo filone di pensiero, la salvezza non è possibile, perché l’uomo è uno “irrecuperabile sventurato”.
Dalla parte opposta c’è la visione “ottimista” che considera benevolmente l’uomo tanto che basta solo un po’ di impegno per risolvere ogni problema e creare una società buona e giusta. Se ne determina che la salvezza non sia necessaria, perché l’uomo è capace da solo a costruire il bene. Ma vi è “la terza via” della salvezza costituita dall’annuncio cristiano che si oppone ad entrambe le posizioni. Per essa la salvezza è necessaria e possibile. Necessaria: perché l’uomo da solo non può né realizzarsi come persona né realizzare una buona convivenza sociale; “possibile” in quanto tramite Suo Figlio, Dio è realmente intervenuto per redimere ogni uomo, cioè per rendere ciascuno capace di dare un senso buono alla propria vita. Quindi la salvezza è «essere con il Signore», pienamente realizzati grazie a Lui. Questa è “collaborazione”.
Senso di responsabilità: assumersi le proprie responsabilità è una delle condizioni necessarie per una ricomposizione delle relazioni tra gli individui (ad esempio all’interno della coppia) e nella società (tra gruppi sociali protagonisti di un conflitto, o tra Paesi) che conduca a un nuovo equilibrio giusto e, quindi, a una pace vera e duratura. La relazione tra Dio e l’umanità da Lui creata si sviluppa in tutta la vicenda biblica, fino alla sua conclusione in Gesù Cristo che ricostituisce la possibilità di “giuste relazioni” e, quindi, di una vera giustizia, una dinamica che ha ripercussioni enormi sulle relazioni tra gli stessi uomini. Occorre possedere un profondo senso di giustizia per riconoscere le proprie responsabilità e la giustizia che spetta all’altro al fine di aprirsi alla possibilità di un rinnovamento radicale della relazione.
Spirito di sacrificio: il “sacrificio” è valore “umano” e “religioso” insieme. Con grande profondità, S. Agostino considera come vero sacrificio le «opere di misericordia, sia verso noi stessi sia verso il prossimo, fatte in riferimento a Dio» (De civitate Dei, LX,6). Ne consegue – egli scrive – che «tutta la città redenta, cioè l’assemblea e la società dei Santi, viene offerta a Dio come sacrificio universale». Ciò comporta necessariamente un cambiamento di mentalità. Non dobbiamo nasconderci che nessuna persona ha la “vocazione” alla sofferenza, alla rinuncia ed al sacrificio almeno senza nulla in contraccambio. Il Papa Benedetto XVI, nell’Enciclica Caritas in Veritate, ha proposto, nella parte dedicata alla sfera economica e allo sviluppo, il significato e il valore del dono grazie alla valorizzazione della categoria della fraternità.
«La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza» (n. 34) tanto che «molte persone, oggi, tendono a coltivare la pretesa di non dover niente a nessuno, tranne che a se stesse. Ritengono di essere titolari solo di diritti e incontrano spesso forti ostacoli a maturare una responsabilità per il proprio e l’altrui sviluppo integrale». (n. 43).
Nell’occasione dell’anno della fede, sempre Benedetto XVI, (Udienza generale, 7 novembre 2012) svolge un’autentica catechesi sul “desiderio”. «Sarebbe di grande utilità, a tal fine, promuovere una sorta di pedagogia del desiderio, sia per il cammino di chi ancora non crede, sia per chi ha già ricevuto il dono della fede. Una pedagogia che comprende almeno due aspetti. In primo luogo, imparare o re-imparare il gusto delle gioie autentiche della vita. Non tutte le soddisfazioni producono in noi lo stesso effetto: alcune lasciano una traccia positiva, sono capaci di pacificare l’animo, ci rendono più attivi e generosi. Altre invece, dopo la luce iniziale, sembrano deludere le attese che avevano suscitato e talora lasciano dietro di sé amarezza, insoddisfazione o un senso di vuoto. Educare sin dalla tenera età ad assaporare le gioie vere, in tutti gli ambiti dell’esistenza – la famiglia, l’amicizia, la solidarietà con chi soffre, la rinuncia al proprio io per servire l’altro, l’amore per la conoscenza, per l’arte, per le bellezze della natura –, tutto ciò significa esercitare il gusto interiore e produrre anticorpi efficaci contro la banalizzazione e l’appiattimento oggi diffusi.

Anche gli adulti hanno bisogno di riscoprire queste gioie, di desiderare realtà autentiche, purificandosi dalla mediocrità nella quale possono trovarsi invischiati. Diventerà allora più facile lasciar cadere o respingere tutto ciò che, pur apparentemente attrattivo, si rivela invece insipido, fonte di assuefazione e non di libertà. E ciò farà emergere quel desiderio di Dio di cui stiamo parlando».

Renata Natili Micheli
Presidente Nazionale CIF