all’avvicinarsi della ripresa politica di settembre
sempre più spesso sentiamo parlare delle problematiche connesse al Patto di stabilità e crescita con toni anche allarmistici come nella denuncia del ministro degli Affari europei, il Sud, le Politiche di coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto che, parlando al meeting di Rimini, ha affermato “se non si trova un accordo sul nuovo modello del Patto di stabilità il rischio è che a gennaio tornino le vecchie regole e questo comporta un effetto molto complesso”. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Il patto di stabilità e crescita (PSC) è un insieme di norme affinché i paesi dell’Unione europea perseguano finanze pubbliche sane e coordinino le loro politiche di bilancio. Esso prevede piani dedicati (negoziati bilateralmente con gli Stati) per una “graduale e realistica” riduzione del debito. Ogni aprile gli Stati membri dell’UE sono tenuti a definire i loro piani di bilancio per i successivi tre anni e per ciascuno Stato membro, con un disavanzo pubblico superiore al 3% del Pil o un debito pubblico superiore al 60% del Pil (il nostro caso), la Commissione pubblicherà una “traiettoria tecnica” di rientro specifica.
In sostanza: il patto di stabilità e crescita garantisce che gli Stati membri adottino risposte politiche adeguate volte a correggere i disavanzi eccessivi (e/o i debiti) se non vogliono subire la procedura prevista per i disavanzi eccessivi.
Infatti, il patto di stabilità e di crescita (PSC) rientra nel contesto della terza fase dell’Unione economica e monetaria al fine di garantire che, anche dopo l’introduzione della moneta unica, sarebbe stata seguita la disciplina di bilancio degli Stati membri. Formalmente, il patto di stabilità e di crescita è costituito da una risoluzione del Consiglio europeo (adottata nel 1997) e da due regolamenti del Consiglio del 7 luglio 1997 che ne precisano gli aspetti tecnici (controllo della situazione di bilancio e del coordinamento delle politiche economiche e applicazione della procedura d’intervento in caso di deficit eccessivi).
Gli strumenti che l’Europa si è dati sono
- il six pack (che ha introdotto un sistema per monitorare le politiche economiche in maniera più estesa, in modo da rilevare problemi come le bolle immobiliari o la perdita della competitività a uno stadio precoce);
- Il two pack (un nuovo ciclo di monitoraggio per l’area dell’euro, che prevede la presentazione di documenti programmatici di bilancio alla Commissione europea ogni autunno da parte dei paesi dell’area euro, tranne quelli con i programmi di aggiustamento macroeconomico);
- il trattato del 2012 sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance (fiscal compact) che ha introdotto disposizioni fiscali più severe del PSC.
In caso di deviazione dal piano, il patto prevede in automatico una procedura d’infrazione per deficit eccessivo che comporta a carico degli Stati non in regola, multe semestrali del valore dello 0,05% cumulabili fino allo 0,5%. A oggi le multe previste erano dello 0,2% del Pil, talmente alte che finora nessun Paese è stato chiamato a versarle.
Vediamo il “caso Italia”. Il Pil italiano è stato di 1.909 miliardi di euro nel 2022. Con un piano quadriennale è previsto un taglio annuo dello 0,85% che vale 16 miliardi; con un piano di sette anni la riduzione viene spalmata e la percentuale scende allo 0,45%, ossia 8,5 miliardi in meno l’anno. Applicando le stesse proporzioni, in caso di procedura d’infrazione l’Italia sarebbe chiamata a versare multe per 950 milioni di euro ogni sei mesi. Fino a un massimo cumulabile di 9,5 miliardi di euro. Questo pre pandemia. Infatti sospeso per tre anni in seguito alla pandemia, il Patto di stabilità e crescita tornerà in vigore ufficialmente nel 2024. Esso potrebbe avere una nuova veste: dopo mesi di negoziati, la Commissione europea ha presentato la sua proposta di riforma delle regole che governano la spesa pubblica degli Stati membri. Regole che per anni sono state accusate, in particolare dall’Italia, di essere state un cappio al collo che ha bloccato la crescita e l’occupazione. Al contrario i cosiddetti Paesi frugali, dalla Germania all’Olanda, considerano queste regole come una garanzia di stabilità dei conti, soprattutto di quelli degli Stati ad alto debito pubblico: “le cicale”.
Attualmente il Patto di stabilità prevede che gli Stati membri mantengano un rapporto tra spesa annuale in deficit (cioè superiore alle entrate fiscali) e Prodotto interno lordo (Pil) pari al 3% e un rapporto tra debito pubblico e Pil pari al 60%. La critica maggiore al Patto ha riguardato soprattutto il secondo parametro: i Paesi che superano la soglia del 60% devono impegnarsi in un percorso di riduzione del debito che prevede un taglio del 5% all’anno. Questo percorso è stato considerato irrealistico da raggiungere per chi, come l’Italia, ha un debito pubblico grande oltre due volte il parametro di riferimento (134%). A meno di non voler mettere mano a una lunga stagione di tagli alla spesa pubblica e riforme lacrime e sangue come quella che ha visto la Grecia sull’orlo del fallimento.
La pandemia di Covid-19, che ha fatto ingigantire i debiti di tutta l’Ue, ha reso ancora più evidente il limite di questa regola. Il mutamento dei due parametri su deficit e debito pubblico, richiederebbe una modifica dei Trattati, ossia aprire il vaso di pandora delle divisioni politiche tra gli Stati membri, con la concreta prospettiva di non raggiungere un accordo in tempi rapidi.
Ora siamo a questo punto: la Commissione vuole superare tutte queste criticità dando più tempo ai Paesi per ridurre il loro debito pubblico, ma anche stabilendo regole più semplici da rispettare per raggiungere tale obiettivo. Innanzitutto, per i calcoli del deficit si prenderà come riferimento la spesa primaria netta, ossia quanto spende ogni Stato al netto di quanto paga per gli interessi sul debito (nel 2021, tali interessi hanno pesato per circa 60 miliardi sui conti italiani, tanto per avere un’idea).
Secondo aspetto importante: per ciascuno Stato membro, Bruxelles tratterà “un unico piano a medio termine” adattato alle caratteristiche del Paese, che prevede “un maggiore margine di manovra nella definizione dei propri percorsi di aggiustamento di bilancio”, ma anche “impegni di riforma e investimento” che, una volta presi, dovranno essere rispettati. Per ciascuno Stato membro con un disavanzo pubblico superiore al 3% del Pil o un debito pubblico superiore al 60% del Pil (il nostro caso), la Commissione pubblicherà una “traiettoria tecnica” specifica. Ogni Paese avrà quattro anni per attuare il suo percorso di aggiustamento. Ma nel compiere questo percorso, il Paese dovrà rispettare una serie di parametri tecnici, onde evitare che il tempo in più concesso non si trasformi in un modo per sfuggire agli impegni (una preoccupazione sollevata dai frugali). L’Italia invece chiede di poter trattare anno per anno. La Commissione ha cercato una via di mezzo tra le pressioni di Berlino e quelle italiane. Lo schema funziona così: chi ha un debito pubblico alto, si impegna con Bruxelles per ridurlo in quattro anni. Potrà farlo mantenendo il rapporto tra deficit e Pil (quindi la spesa annuale) sotto il 3%, oppure, se dovesse superarlo, tagliando il debito pubblico dello 0,5% del Pil all’anno (e non l’1 come chiedeva la Germania). Fin qui, sembra che la Commissione abbia sposato le istanze italiche. Ma nel pacchetto c’è anche un terzo parametro: lo Stato con debito eccessivo avrà un obbligo di mantenere la spesa annuale al di sotto della crescita potenziale del Pil. È quanto propone Berlino, solo che a differenza del documento tedesco, qui Bruxelles non specifica di quanto questa spesa debba stare al di sotto della crescita potenziale. Cosa succederà? possiamo prendere come riferimento il 2024: il prossimo anno il Pil dell’Italia crescerà solo dell’1%. Questo vuol dire che oltre l’1% del Pil, il governo Meloni non potrà allargare i cordoni della borsa. Altro che tetto del 3%!